La Commissione europea, nella persona di Jean-Claude Juncker, ha presentato lo scorso 1° marzo il Libro Bianco sul futuro dell’UE. Uno sforzo programmatico che doveva indicare la visione dell’istituzione sul futuro, in vista delle celebrazioni del sessantesimo anniversario della firma dei Trattati di Roma. Una “visione”, appunto.
Ci attendevamo un po’ tutti un’analisi dei limiti dell’Europa di oggi e una proposta da seguire per porvi rimedio o, quantomeno, un orizzonte al quale tendere, rinvigorendo lo spirito e i principi dei Trattati originari. Invece cosa ci siamo trovati davanti? Cinque scenari asettici, nemmeno troppo ricchi dal punto di vista dell’ingegneria politica.
C’è però un denominatore comune a tutte le opzioni messe sul tavolo: la mancanza di ogni sorta di autocritica nei confronti dell’operato dell’Unione, o meglio di come le politiche dell’Unione sono state plasmate e messe in pratica negli ultimi anni. L’UE dei giorni nostri è infatti un sistema completamente sclerotico. In mancanza di trasferimenti interni tra gli Stati per compensare gli squilibri macroeconomici, da utilizzare principalmente per favorire la crescita nelle aree periferiche, risulta di fatto un sistema di cambi fissi – tra l’euro e le vecchie monete nazionali – nell’ambito del quale è stata sottratta agli Stati sovrani la possibilità di agire liberamente sulla spesa pubblica. In periodo di crisi economica i governi si trovano, quindi, nell’impossibilità da un lato di utilizzare la leva del cambio, e dall’altro di adottare politiche realmente anticicliche. Per farla breve, Keynes è stato reso “incostituzionale”.
Il coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri dovrebbe avere lo scopo di far convergere le diverse economie verso una situazione di benessere per i cittadini. Ad oggi, invece, l’unico tipo di coordinamento applicato è il paradigma dell’austerità. Regole imposte in modo asettico, che nascondo – nemmeno troppo bene, per la verità – quell’ideologia iperliberista tanto caldeggiata dalle élites economico-finanziarie quanto invisa ai cittadini europei.
Il sistema, così concepito, ha acuito le differenze tra le Regioni d’Europa, sommando i propri effetti a quelli della crisi economica. Questi effetti si sono rivelati disastrosi per le economie di alcuni paesi dell’Eurozona e ne hanno invece avvantaggiato altri.
Come ho detto rivolgendomi a Juncker in plenaria, la Commissione avrebbe dovuto avere l’onestà intellettuale di presentarci anche un Libro nero, riconoscendo gli errori commessi e proponendo una via nuova all’unità nella diversità. È infatti evidente di cosa vi sia necessità in Europa, quali siano le priorità, che ogni giorno i cittadini europei invocano inascoltati: lavoro, uguaglianza e solidarietà.
La grande avventura dell’integrazione europea deve essere raddrizzata e la dimensione sociale, tanto sbandierata anche dai capi di governo europei nel corso dei vertici e delle riunioni più informali dell’ultimo mese, deve diventare realtà. Lo slogan da foto ricordo non basta e non può più bastare.
I Trattati forniscono infatti gli strumenti atti a far fronte alle disuguaglianze, alla povertà e all’esclusione sociale: è la volontà politica che, nei fatti, è sempre mancata. Gli obiettivi della piena occupazione e del rogresso sociale sono parte integrante del testo dei Trattati, così come la clausola sociale orizzontale. Ancora, i Trattati, che pongono a fondamento dell’Unione la democrazia, lo Stato di diritto e il rispetto dei diritti umani, stabiliscono l’obbligo di solidarietà tra Stati membri in materia di gestione dei flussi migratori. Ma sappiamo benissimo come invece tale impegno venga sistematicamente disatteso. Senza contare che, oggi, paghiamo la Turchia di Erdogan perché “ci risolva” il problema immigrazione, incuranti del fatto che quest’ultimo rispetti o meno i principi sopra richiamati.
A Roma, in occasione delle celebrazioni per i sessant’anni del Trattato, è stata firmata dai capi di Stato e di governo dei 27 paesi dell’UE (Gran Bretagna assente) una dichiarazione sul futuro dell’Europa. Si tratta però, ancora una volta, di impegni generici e volutamente vaghi, in cui anche le virgole sono studiate per tener dentro i desiderata di tutte le parti. Dubito quindi che essa possa essere accolta come l’espressione di quella spinta propulsiva, di quel cambio di passo di cui l’Europa ha urgente bisogno.
Spero però di sbagliarmi, perché, in caso contrario, il rischio forte è che l’esasperazione giustamente mostrata dai cittadini nei confronti di un’UE che non risponde ai loro bisogni conduca ben presto alla sua implosione. Il tempo scorre veloce: non sarà certo l’ipocrisia a fermare il conto alla rovescia.