Si chiamava Simone Camilli. Era un ragazzo di Roma, come lo sono molti di noi. Un giornalista che aveva trasformato la sua passione per la storia in lavoro. Amava il suo mestiere: raccontarci la cruda verità degli orrori della guerra. Perché credeva che un bravo giornalista deve essere lì “dove accadono le cose” perché solo dal vivo, vivendo e soffrendo quotidianamente come le stesse popolazioni tramortite dalle bombe, si può riuscire a capire e trasmettere la sofferenza di quella gente, non dietro a una scrivania. La Striscia di Gaza era solo l’ultimo dei luoghi di guerra che aveva visitato. Nel corso degli anni era stato nei Territori palestinesi e in Israele, aveva raccontato il naufragio della Costa Concordia, la guerra in Georgia nel 2008 e nel 2007 in Turchia per i bombardamenti contro i ribelli turchi del PKK.
Simone è morto mentre riprendeva con la sua cinepresa uno sminamento di una bomba israeliana in un posto che si chiama valle degli ulivi. Un nome che, accostato al massacro dei nostri giorni, sembra quasi comporre un ossimoro: in quella valle, ora, cresce solo la disperazione e la morte. Non certo quell’albero che è il simbolo di una pace osteggiata da troppi interessi, una pace per la quale l’Europa continua a non volersi battere come dovrebbe.
Solo nel conflitto del 2014, sono morte quasi 2000 persone tra civili e miliziani israeliani e palestinesi che si aggiungono alle altre migliaia dei conflitti precedenti e non si sa ancora quanti ne dovranno essere ancora sacrificati prima che il problema venga affrontato nei tempi e modi che merita.
Io non lo conoscevo ma doveva avere molto coraggio e determinazione, per questo lo ammiro. E mi piace pensare che avesse scelto di vivere pienamente il suo mestiere perché sapeva che senza conoscenza non può esserci coscienza. Senza coscienza non si possono scuotere le persone dal loro torpore di spettatori distratti e disinteressati.
Con questo pensiero voglio onorare la sua memoria. Riposa in pace Simone.