Oggi, con un video messaggio, ho inviato il mio contributo al quarto summit europeo “A Plan B for the EU and the Euro-zone”, che si sta svolgendo a Roma.
La domanda dalla quale sono partito è quale sia il problema dell’Europa di oggi. La risposta sta nell’arroccamento sullo status quo, rappresentato formalmente, in primis, dal Trattato di Lisbona. Questo dedica un capo alla politica economica e monetaria ed un altro alla politica sociale, ma, dietro una facciata che pone i due aspetti sullo stesso piano, l’implementazione è assai diversa. La politica monetaria dei paesi che aderiscono all’euro è competenza esclusiva dell’Unione, mentre sia quella economica che quella sociale sono concorrenti. È chiaro a tutti come a fronte di un’intensa attività nell’ambito della prima, la seconda appaia completamente trascurata. Nel momento in cui in un territorio viene adottata una moneta unica, la politica economica dovrebbe seguire, ma nel caso dell’Unione questo sviluppo è stato anomalo.
Una parte fondamentale della politica economica dell’UE si è infatti sviluppata al di fuori del quadro giuridico dell’Unione, attraverso accordi e Trattati intergovernativi, che sfuggono quindi a qualsivoglia controllo democratico diretto. Così il Patto di stabilità e crescita nel 1997 e, più recentemente, i cosiddetti six pack e two pack e il Fiscal Compact. Questi sono gli strumenti individuati per delimitare, indirizzare e, di fatto, talvolta imporre agli Stati membri politiche di bilancio considerate ‘sane’.
Ma sane perché, e soprattutto ‘sane’ per chi?
Per gli undici milioni di greci forse? O per i quarantasei milioni di spagnoli? O, ancora, per i sessanta milioni di italiani?
Il coordinamento, come viene eufemisticamente definito, delle politiche economiche degli Stati membri dovrebbe avere lo scopo di far convergere le diverse economie verso il benessere per i cittadini. Al momento, al contrario l’applicazione asettica delle regole ha accentuato le differenze tra le regioni d’Europa, sommando i loro effetti a quelli della crisi economica. Tornando al concetto di status quo, questo appare come un sistema sclerotico, che vede una moneta comune senza una visione complessiva comune. Regole fissate in modo asettico, in un determinato periodo storico e sulla base di rapporti di forza definiti, e dalle stesse perpetuati, vengono applicate pedissequamente a dispetto della loro manifesta inadeguatezza.
Il principale errore europeo è sempre anteporre l’unificazione degli strumenti al cambiamento delle politiche. Forse perché si ha paura di confessare la volontà di difendere quell’iperliberismo senza freni tanto caldeggiato dalle élite economico-finanziarie quanto inviso dai nostri popoli. E così lo strumento non viene concepito per servire un fine giusto, ma come manganello per imporne, con la forza, uno sbagliato. Quali sono le giuste priorità quindi? Basta leggere le nostre Costituzioni: lavoro, uguaglianza, solidarietà. In assenza della definizione di un suo orizzonte valoriale corrispondente all’interesse dei cittadini, e di interventi concreti per perseguirlo, il rischio di un collasso dell’Unione appare sempre meno improbabile. E non saranno forze esogene la causa della disgregazione, ma essa imploderà su sé stessa vittima dell’incapacità della sua classe dirigente di perseguire i diritti di tutti, sacrificati sull’altare dell’interesse di pochi.