di Torquato Cardilli, diplomatico e giornalista – Nella tragedia Medea di Seneca c’è una locuzione famosa, successivamente ripresa da Cicerone, “cui prodest?” che sta a significare che bisogna ricercare chi ha interesse in qualunque affare, anche se non delittuoso, per scoprire chi ne sia il promotore. Questa verità porta a domandarci quali interessi si nascondano dietro una legge o un decreto che non sia apertamente e manifestamente in favore del popolo, nell’accezione più ampia del termine, anche in termini se non economici di valori democratici universali. Conseguentemente la consapevolezza che ogni azione politica può essere portatrice e nascondere istanze e interessi particolari ci deve servire per guidarci nell’azione di analisi politica.
Cominciamo con l’applicare questa formuletta alle relazioni internazionali.
Il perimetro entro cui può muoversi la nostra politica estera è molto limitato per non dire angusto. Ci sono alcuni punti fermi che ne segnano il confine in modo invalicabile, come hanno bene imparato alcuni politici del passato (Fanfani, Moro, Craxi, Andreotti, D’Alema) o grandi manager dell’industria (Mattei, Gardini, Ferruzzi) fissato non da delibere parlamentari autonome o da scelte popolari attraverso il referendum, ma direttamente da poteri economici multinazionali, geopolitici di ordine mondiale stabiliti oltre Atlantico, con un potere di convincimento che va ben oltre quanto si possa immaginare.
Tutti i dossier più scottanti hanno dovuto subire lo stesso percorso di condotta forzata in modo proporzionale all’interesse degli USA sia in ambito politico di zone di influenza, sia sul piano militare regionale o mondiale, sia come politica economica, finanziaria, di controllo degli armamenti delle materie prime, o semplicemente delle risorse alimentari.
Partiamo dall’insensata guerra in Afghanistan. La posizione americana illustrata a tutti gli inquilini di palazzo Chigi degli ultimi dieci anni e ripetuta in modo brusco anche a Renzi è che guai a noi se ci permettiamo di sganciarci da quella fornace-inghiotti risorse, buco nero dello sperpero delle tasse degli italiani. La prova? E’ bastato che Obama smentendo se stesso e il suo premio Nobel per la pace dichiarasse che il ritiro non avverrà più nel 2016 che il fedele valletto di Rignano, nonostante i proclami della campagna elettorale del 2013 e le reiterate affermazioni in Parlamento, prendesse subito l’impegno di restare a Kabul oltre il 2016.
Cui prodest?
Che sia una guerra persa lo sanno anche le pietre: in oltre dieci anni nessuno degli obiettivi che venivano indicati come presupposti di giustificazione è stato raggiunto. I Talebani sono sempre forti nel controllo del territorio e della società, il governo fantoccio imposto dagli americani a Kabul non si è dimostrato all’altezza della situazione, il terrorismo internazionale non è stato indebolito, ma semmai è aumentato, così come il contrabbando di armi e droga, grazie alla fallimentare, oserei dire demenziale, politica messa in atto in tutto lo scacchiere mediorientale compreso il triangolo della morte Siria-Iraq-Iran, come dimostra l’ennesimo eccidio di Parigi.
Quanto alla Libia, l’averci obbligato alla guerra contro Gheddafi è stato un altro clamoroso insuccesso della politica anglo-franco-americana che ha portato, dopo l’uccisione dell’ambasciatore americano a Bengasi, alla più completa disgregazione del paese, alla nascita di due governi contrapposti e al moltiplicarsi di bande di ribelli più o meno affiliati al Califfato. A noi che abbiamo dovuto subire per tutti questi anni l’invasione da Sud di centinaia di migliaia di africani è stato praticamente detto di cavarcela da soli, senza poter contare su nessuna forma concreta di solidarietà. Avremmo avuto bisogno di compartecipazione agli sforzi per la redistribuzione degli immigrati e dei profughi ed invece ci siamo accontentati che le marine francese, spagnola, svedese, olandese e di altri paesi extra mediterranei raccogliessero i profughi-naufraghi e anziché portarseli a casa (le loro navi militari sono territorio loro o no?) li scaricassero nei nostri porti, a tutto vantaggio della criminalità organizzata e delle sovvenzioni per la gestione dei centri raccolta.
Cui prodest?
Sul contrasto con Mosca per l’Ucraina e sull’obbligatorietà delle sanzioni alla Russia che costano all’Italia alcuni miliardi di euro in termini agricoli, industriali, turistici, proprio nel momento in cui avremmo più bisogno di sostegno all’economia, siamo vincolati in modo ferreo, ma ci è vietato di prendere parte a qualsiasi forma di negoziato internazionale. Né la presenza a qualche pranzo formale o a qualche foto ufficiale della Mogherini può essere ascritta a successo della politica estera italiana.
Sulla lotta contro l’Isis in Siria e in Iraq il nostro contributo militare è modesto ma ci viene richiesto di mantenerlo senza accampare pretese di compensi politici o di partecipazione a tavoli di negoziato a cui possono sedere solo Germania, Francia e Gran Bretagna. Anzi dopo il massacro di Parigi il nostro governo vorrà fare la mosca cocchiera nel dichiararsi pronto ad ogni partecipazione in prove di forza.
Sulla questione dei marò sembra ormai calato il sipario del disinteresse alla richiesta di sostegno politico, accompagnato da qualche frase di commiserazione, mentre l’ambizione italiana alla candidatura per uno dei posti a rotazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ci viene agitata di fronte come un’esca (irraggiungibile) purché si assecondino i disegni politici americani.
Cui prodest?
Di fronte a questo scenario c’è forse da meravigliarsi se prima o poi il nostro governo cederà anche di fronte al trattato TTIP, volgarmente detto “ti tengo in pugno”?
Il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) è un accordo commerciale di libero scambio, in fase finale di negoziato iniziato nel 2013, che gli Stati Uniti intendono imporre all’Europa, con validità obbligatoria per tutti i paesi aderenti all’UE. L’obiettivo dichiarato è quello di integrare i due mercati continentali di oltre 700 milioni di consumatori, riducendo i dazi doganali e rimuovendo tutte le differenze nei regolamenti tecnici, norme, procedure, standard che sono applicati a tutti i servizi e prodotti, soprattutto alimentari. Questa deregolamentazione porterà in pratica all’abolizione dei controlli, ad un abbassamento degli standard produttivi e dei livelli qualitativi in diversi settori, compreso quello agricolo con ulteriore perdita della sovranità politica, commerciale, alimentare del nostro paese, a favore di una massificazione produttiva, tipica degli Stati Uniti. Le aziende americane entrerebbero in diretta concorrenza nella gestione di beni comuni, acqua compresa, e nella commercializzazione di prodotti di largo consumo a tutto vantaggio delle colture OGM delle loro multinazionali mettendo in pericolo il principio della precauzione per la tutela della salute dei cittadini. E il consumatore italiano finirà per portare in tavola il pollo al cloro e altre aberrazioni alimentari mentre la piccola e media impresa, che costituisce l’ossatura economica della nazione, sarà fortemente penalizzata.
Ma non basta.
L’America ha preteso l’inclusione nel trattato della clausola detta ISDS (Investor-State Dispute Settlement) che consente alla società straniera che si ritenesse danneggiata dai regolamenti in vigore nel paese di fargli causa, non secondo la legge del luogo in ossequio alla Costituzione ed alla competenza territoriale. Gli Stati europei potrebbero vedere impugnate le proprie leggi nazionali, emanate per la protezione dell’interesse pubblico (dalla salute all’ambiente) e messi in stato di accusa in un processo a porte chiuse, senza controllo pubblico e dall’esito inappellabile presso le cosiddette Corti di arbitrato commerciale (una sorta di tribunali internazionali privati e opachi) in cui le leggi e la politica nazionale non avranno alcun potere di intervento. La sentenza del giudice, che prescinde da qualsiasi valutazione sull’impatto sociale-ambientale dell’azione dell’investitore che promuove il giudizio, dovrà dare risposta ad un’unica domanda: lo Stato ha leso i profitti o le aspettative di profitto dell’investitore? Il contesto non conta, e non vale neppure il fatto che il parlamento abbia varato quella legge contestata per difendere l’ambiente, la salute o il lavoro.
Cui prodest?
La maggior parte dei processi si svolgerebbe presso il Centro internazionale per il regolamento delle controversie sugli investimenti (ICSID), istituzione fondata 50 anni fa, del Gruppo della Banca mondiale, con sede a Washington e in misura minore davanti alla Commissione delle Nazioni Unite per il diritto commerciale internazionale (UNCITRAL), nata anch’essa nel 1966 e cooperante con la World Trade Organization.
Oltre al danno c’è in agguato anche una beffa. Il Tribunale è composto da tre membri, scelti di volta in volta da una lista ristretta di avvocati privati di famosi studi internazionali. Ciascuna delle due parti in causa nomina il proprio difensore (con un onorario sui 700 dollari l’ora), e i due nominati concordano sulla scelta del terzo componente con funzioni di presidente del collegio. Data la ristrettezza numerica dei mandarini di questa casta può capitare che chi svolga il ruolo di difensore in un processo possa rivestire il ruolo di giudice in un altro processo, anche in udienze che procedono parallelamente, con un macroscopico e palese conflitto di interesse.
Cui prodest?
In Germania, dove esiste un’opinione pubblica più sensibile ed informata, un’imponente manifestazione di 200 mila cittadini è scesa in piazza a Berlino per dire no al TTIP con l’autorevole sostegno del presidente del parlamento federale che ha dichiarato di escludere categoricamente “che il Bundestag ratifichi un contratto commerciale tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti non avendo mai partecipato ai negoziati e non avendo nemmeno potuto prendere in considerazione opzioni alternative”. E il ministro dell’Economia gli ha fatto eco dichiarando che ”l’accesso limitato alle informazioni imposto da parte statunitense è inaccettabile, sia per il governo che per il Parlamento”.
In Belgio è stata indetta una manifestazione di contadini, lavoratori, studenti, semplici cittadini per il 19 dicembre volta alla sensibilizzazione delle coscienze per un’Europa più sociale, più ecologica, più democratica, contro le politiche di austerità e il TTIP definito iugulatorio.
Il Governo italiano, anziché battersi come un leone nel proteggere il made in Italy, e protestare perché non gli sarebbe concessa alcuna possibilità di fare obiezioni soprattutto sull’alterazione delle regole a favore delle imprese americane che minerebbe alle fondamenta la sovranità nazionale, continua a mantenere il silenzio sulla questione tanto è vero che nessuno dei partiti di maggioranza, o dei grandi mezzi di informazione compiacenti ne ha fatto oggetto di dibattito, di analisi approfondita, di spiegazione all’opinione pubblica.
I documenti del negoziato conosciuti solo da un gruppo di burocrati restano segreti, mentre gli stati membri dell’UE saranno interpellati solo per la ratifica che non avverrà per approvazione popolare, ma attraverso la firma dei capi di governo. Su questa inconcepibile segretezza Renzi non ha nulla da dire. Ma non è stato proprio lui, agli inizi del suo mandato, ad aver platealmente protestato contro Bruxelles su una lettera riservata dicendo che avrebbe trasformato la UE in una casa di vetro nella quale non ci sarebbero stati più segreti per nessuno?
Le istituzioni italiane ignorano la questione. La Boldrini a giugno scorso aveva incontrato la commissaria UE delegata alla trattativa Malstrom auspicando un’intesa per rendere più trasparente il trattato e a non “trattare al ribasso su salute e ambiente”. Parole vuote, mentre dal presidente del Senato Grasso, in via di imbalsamazione, non è uscito un alito di voce. Se ne deduce che il governo ratificherà ad occhi chiusi il TTIP.
Cui prodest?
Non abbiamo finito di ascoltare i vantati successi dell’Expo dedicato a nutrire il pianeta che una nuova mazzata incombe sull’olio extravergine di oliva italiano. Dopo l’emergenza della xylella che ha messo in ginocchio la produzione pugliese, con l’eradicazione di centinaia di piante secolari, adesso dall’Europa arriva il colpo finale per il settore.
La Commissione europea intende concedere alla Tunisia il permesso di esportazione verso l’Europa, senza dazi, 70 mila tonnellate di olio in 2 anni, una quantità che corrisponde al 20% della produzione italiana. L’olio tunisino, come noto, è prodotto a un costo notevolmente inferiore rispetto all’olio italiano e questa imprevista concorrenza rischia di compromettere l’agricoltura italiana che, ancora una volta, viene usata come merce di scambio per la politica internazionale. Come è possibile che il prezzo di un aiuto umanitario dell’Unione europea verso la Tunisia venga fatto pagare dalle regioni più povere d’Europa (oltre al Sud Italia, anche Grecia, Portogallo, Spagna) che sopportano già difficoltà economiche strutturali proprie? Cui prodest che l’agricoltura sia ancora una volta usata come merce di scambio per le politiche di sostegno e di cooperazione verso i Paesi terzi? Lo stesso accadde con il Marocco per le arance, e con il sud est asiatico per il riso addossandone il conto agli agricoltori del Sud Europa con l’acquiescenza del nostro governo.
Perché adesso questa ulteriore apertura dopo che l’Europa nel 2011 ha stanziato un programma di macro assistenza finanziaria di 800 milioni di euro, e quest’anno ha già erogato 100 milioni di euro come prima tranche di un prestito complessivo di 300 milioni?
Alcuni sospetti nascono dagli interessi economici dell’attuale primo ministro tunisino, Habib Essid che è uno dei maggiori produttori di olio del paese e che dal 2004 al 2010 è stato persino direttore esecutivo del Consiglio oleicolo internazionale. Con questa politica suicida di importazione senza dazi si vuole aiutare il popolo tunisino o gli affari dei suoi governanti a spese dei nostri piccoli produttori? Cui prodest?
Il TTIP ovvero Ti Tengo In Pugno
18
Dic 2015
