Una “guerra dimenticata”, almeno agli occhi dell’opinione pubblica e dei mass media. Una guerra che invece, come vedremo, ci tocca e ci riguarda molto più di quel che potremmo pensare. È quella che si combatte in Yemen tra i ribelli sciiti Houti e i lealisti filosauditi del presidente Hadi e che in nove mesi di conflitto ha fatto già circa 6000 vittime e quasi 30.000 feriti. Ma è anche una guerra che valica i confini del piccolo e poverissimo Paese della penisola arabica, una proxy war (guerra per procura) in cui si contrappongono la potenza regionale saudita e quella iraniana. E in cui anche l’Italia fa la sua parte, con la vendita di armi a Riad pronte ad essere usate in Yemen contro gli sciiti – un fatto su cui i portavoce 5 Stelle al Parlamento italiano hanno presentato un’interrogazione alla ministro della Difesa Roberta Pinotti.
Guerra recente, radici antiche
Il conflitto ha radici storiche profonde ma questa sua ultima escalation risale a fine marzo. Le truppe dei ribelli Houti, provenienti dal nord-est del Paese, erano arrivate progressivamente fino alla capitale Sana’a ed avevano cacciato il presidente Mansour Hadi (in carica dal 2012, deposto a gennaio ma ancora formalmente capo di Stato), prendendo così il controllo di una parte consistente del territorio dello Yemen. Nella notte tra il 25 e il 26 marzo 2015 l’Arabia saudita, a capo di una coalizione di Paesi arabi a maggioranza sunnita (cinque Stati del Golfo più Giordania, Egitto, Marocco e Sudan), ha cominciato bombardamenti contro le loro postazioni. A fronteggiarsi, nella guerra allora iniziata, sono quindi due fronti: da un lato gli Houti, guerriglieri sciiti sostenuti sul fronte interno dall’ex presidente yemenita (già in carica per 30 anni) Ali Abdullah Saleh e armati dall’Iran, il cui appoggio è per loro essenziale; dall’altro appunto la coalizione guidata dalla vicina Arabia, che supporta il deposto presidente Hadi in funzione anti-ribelli Houti (e fondamentalmente anti-sciita).
Tra avanzate e ritirate militari dell’uno e dell’altro fronte, le parti si sono ritrovate infine in una situazione di stallo senza vincitori né vinti, e hanno infine concordato un fragile cessate il fuoco, preludio al tavolo di pace tenuto in Svizzera sotto l’egida delle Nazioni Unite. Anche i colloqui di Berna, però, si sono rivelati improduttivi, tanto che, dopo essersi conclusi senza un accordo, sono stati rinviati al 14 gennaio 2016 e sono a tutt’oggi considerati estremamente difficili, se non addirittura votati in partenza al fallimento, a causa della crescente rivalità fra le parti, anche a seguito dell’esecuzione dello sceicco Nimr al-Nimr in Arabia Saudita che ha esacerbato le relazioni tra Iran e casa Saud.
Dietro le forze i campo, infatti, sono ben evidenti gli interessi contrapposti di Riad da un lato e di Teheran dall’altro, che fanno dello Yemen una mera pedina della contesa tra le due potenze rivali. Entrambe hanno i loro scopi da perseguire. I sauditi sono mossi dal principio del divide et impera per mantenere il controllo economico e politico sul loro vicino. Gli iraniani vedono nei ribelli Houti – in lotta contro l’autorità centrale sin dai primi anni della riunificazione dello Yemen – la possibilità di espandere la loro area di influenza, infastidendo l’arcinemico arabo proprio alle porte di casa.
Armi d’Arabia
In questa intricatissima partita tanto interna quanto esterna ai confini dello Yemen, su uno degli scacchieri mediorientali al momento in ballo – l’altro è evidentemente quello siriano-iracheno, senza dimenticare quello ancora più vicino a noi, vale a dire la Libia – si inseriscono anche interessi e complicità del governo italia
L’Osservatorio permanente sulle armi leggere (Opal) e la Rete italiana per il disarmo hanno denunciato come il 29 ottobre sono partite dall’Italia armi dirette in Arabia saudita e plausibilmente destinate a bombardamenti in Yemen. Il quotidiano L’unione sarda aveva infatti documentato il carico di tonnellate di bombe ‘made in Sardinia’ su un Boeing 747 della compagnia Silk Way dell’Azerbaijan. Partite dall’aeroporto civile di Cagliari Elmas, le munizioni prodotte dalla fabbrica Rwm di Domusnovas erano destinate proprio all’ Arabia Saudita. Diverse associazioni umanitarie, tra cui Amnesty International, hanno chiesto spiegazioni al governo italiano, dopo aver già invocato una moratoria dell’export italiano di armi verso Riad. “La comunità internazionale – ha sottolineato il portavoce italiano di Amnesty Riccardo Noury – si muove in maniera incoerente rispetto alle violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita. Da un lato si mobilita contro il rischio che venga messo a morte un attivista minorenne e premia un blogger dissidente. Dall’altro, tace sui crimini di guerra commessi in Yemen e, anzi, lo alimenta con trasferimenti irresponsabili di armi”. Infine è arrivata l’iniziativa del Movimento 5 Stelle, che citavo in apertura, alla Camera e al Senato.
D’altronde l’export di forniture militari verso Arabia saudita e Paesi del Golfo è in costante aumento. Lo dicono i dati del rapporto annuale dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) che segnalano come negli ultimi anni si assista ad una crescita generale dell’export di armi verso Medio oriente, Arabia Saudita e Emirati Arabi in testa. L’IHS Global Defence Trade Report dettaglia poi come proprio l’Arabia si attesti nel 2014 a livello di primo importatore di armi al mondo. Tra i maggiori fornitori di armamenti, rivela ancora il Sipri, ci sono Usa, Russia, Cina e due Paesi europei: Germania e Francia. E l’Italia segue a breve distanza.
Dove va a finire questo fiume di armi? Sulla testa dei civili, purtroppo. A gennaio 2016 un razzo della coalizione saudita ha colpito un ospedale di Medici senza Frontiere in una zona di confine con l’Arabia controllata dai ribelli Houti, facendo almeno quattro vittime – tre dei quali operatori umanitari – e dieci feriti. Un tragico deja vu, dato che un’altra struttura sanitaria gestita dalla stessa ong era già stata bombardata nell’ottobre 2015, lasciando oltre 200.000 persone prive di cure mediche salvavita.
Fermare le armi e il massacro
Ecco spiegato perché la guerra in Yemen sarà pure “dimenticata”, ma non è lontana né trascurabile. Né tantomeno lo sono le responsabilità del Governo Renzi. Unendomi alle richieste dei colleghi portavoce al Parlamento italiano, chiedo a Roma come a Bruxelles di assumere una linea veramente coerente con i valori e i principi democratici che dovremmo difendere, per contribuire a spegnere questa spietata e atroce guerra per procura. E dove, come sempre, ci si dimentica della catastrofe umanitaria in atto, che colpisce indiscriminatamente la popolazione civile.
Infatti, come ho denunciato nel mio intervento in aula a Strasburgo, oltre ai circa 4.000 morti stimati, sono 3 milioni gli yemeniti sfollati, 16 milioni quelli rimasti senza acqua potabile e senza assistenza sanitaria. Ancora più grave è il numero elevatissimo di violazioni di diritti umani verificato dalle Nazioni Unite: oltre ottomila da aprile 2015, quando già la coalizione era sotto l’egida della risoluzione ONU 2216.
Ho chiesto e torno a chiedere all’Europa di levare finalmente la sua voce e di agire anche sui propri Stati membri. Non è tollerabile che il timore di urtare gli interessi dell’Arabia saudita e della lobby europea degli armamenti. Non vorrei infatti che, a forza di chiudere gli occhi per proteggere l’utile (il nostro, ovviamente), finissimo per diventare ciechi davanti all’indispensabile.