Giulio Regeni è morto per suoi ideali. Una morte brutale, orribile – ancora più se si pensa alla giovane età a cui Giulio è stato ucciso: 28 anni. Solo due in meno di me. Una morte apparentemente insensata, se si considera quanto può essere mite e non certo violento un ricercatore di Cambridge, studioso di economia e appassionato di Egitto, che si trovava al Cairo proprio per scrivere la sua tesi di dottorato. Eppure, questa circostanza tragica che non avrei mai voluto dover commentare, permette di dire chiaramente qualcosa sul Paese in cui Giulio si è sfortunatamente trovato a finire i suoi giorni.
E’ già molto indicativo il modo in cui abbiamo appreso la notizia del suo decesso. Mentre a caldo il Ministero dell’Interno egiziano ha diffuso la versione dell’incidente stradale – dimostratasi in breve tempo totalmente implausibile, considerando le ferite sul corpo del ragazzo -, il procuratore di Giza parlava già di “morte lenta”, facendo riferimento a segni di tortura. L’autopsia effettuata a Roma stabiliva infine come come Giulio Regeni fosse morto per la frattura della vertebra cervicale causata da un violento colpo al collo.
Una contraddizione, quella tra le due versioni della morte di Giulio da parte delle autorità egiziane, non casuale e legata probabilmente all’intenzione, da parte di alcuni, di depistare le indagini. Ma per quale motivo? Nelle ore successive al ritrovamento del corpo, e subito dopo la conferma che si trattava del ragazzo friulano scomparso al Cairo il 25 gennaio, è emersa un’altra verità. Oltre a essere un ricercatore di economia, Giulio era interessato alla politica e alla società egiziana. Scrivevareportage sui diritti negati da quello che descriveva come un governo repressivo e dispotico – quello del generale al-Sisi, appunto. E diceva di avere paura per la sua incolumità.
Si fa anche l’ipotesi che, in collegamento con ambienti della sinistra ostili sia agli islamisti che al governo egiziano (e per questo sorvegliato dalla polizia che lo avrebbe segretamente arrestato), Giulio sia stato tradito dal contatto con Giuseppe Acconcia, anche lui ricercatore e giornalista italiano già noto alle forze di sicurezza per essere stato arrestato all’indomani della Primavera araba nel 2011. Anche per questo la polizia potrebbero averlo voluto arrestare e probabilmente torturato fino alla morte.
La vicenda mi spinge a due considerazioni, tra loro collegate. La prima riguarda le molteplici violazioni dei diritti umani attribuite negli ultimi anni alla polizia e all’attuale esecutivo egiziano. La Egyptian Commission for Rights and Freedoms, un gruppo indipendente che lavora sui diritti umani, riferisce di 340 casi di sparizione forzata negli ultimi due mesi, con una media di tre casi al giorno.
La seconda è piuttosto una riflessione sull’esito della Primavera Araba in Egitto. Dopo un iniziale sostegno a Muhammad Mursi, gli Usa e i principali Paesi europei hanno favorito, se non assecondato, un nuovo cambio politico al Cairo. Il timore era quello che un governo pur democraticamente eletto, come quello di Mursi appunto, fosse pericolosamente incline a tentazioni islamiste, rappresentando un pericolo per tutta la regione. A distanza di due anni e mezzo dall’insediamento dell’attuale presidente Abdel al Sisi, il “rimedio” sembrerebbe, a detta di molti, persino peggiore del male: Human Rights Watch ha definito il suo regime “il più repressivo che l’Egitto abbia mai visto”.
In questo contesto, la morte di Giulio Regeni reclama innanzitutto che verità e giustizia siano fatte. Il nostro Paese – primo partner commerciale europeo per l’Egitto, con molta voce in capitolo, quindi – ha inviato alcuni ispettori per contribuire alle indagini e assicurarsi che i responsabili di questo crimine atroce siano trovati e puniti: ora il Governo ha il dovere di pretendere chiarezza fino in fondo e nessuna altra considerazione, tantomeno di tipo commerciale, potrà giustificare alcun tipo di deroga.
In questo momento tante tesi vengono avanzate: tra ufficiali, ufficiose o complottiste, le ricostruzioni e le illazioni si rincorrono una dietro l’altra sulla stampa internazionale e italiana. C’è chi pensa che gli ambienti governativi potrebbero approfittare dell’occasione per addossare la colpa ai Fratelli musulmani, avanzando l’ipotesi che desiderino danneggiare il turismo e l’immagine del Governo. E chi sostiene, al contrario, che ben poco senso avrebbe avuto prendersela con qualcuno che, proprio per la propria attività di giornalista, finiva invece per essere vicino alle posizioni delle opposizioni. Sullo sfondo, la vera domanda resta sempre: “cui prodest”? A chi giova questa morte, che in ogni caso rischia di compromettere le intense relazioni commerciali ed economiche tra Italia ed Egitto degli ultimi mesi? Ad aumentare la confusione, si è aggiunto infine l’ambasciatore egiziano a Roma, che a supporto della versione ufficiale del suo Paese (Regeni “mai stato arrestato”) ha affermato, alludendo alla tempistica del ritrovamento del cadavere: “Non siamo così ingenui da uccidere un italiano e gettare il suo corpo proprio nel giorno della visita del ministro Guidi al Cairo”.
Dalle verità dei fatti, evidentemente, siamo ancora molto lontani. Il ogni caso, qualsiasi versione emergerà in futuro, sarà comunque necessario, ancor di più dopo questo tragico episodio, che l’Europa e l’Italia riflettano sull’atteggiamento da assumere nei confronti dei propri alleati a sud del Mediterraneo come in Medio Oriente. Non è possibile sostenere in modo acritico chi combatte il fondamentalismo religioso di alcuni limitando i diritti di tutti, la violenza terroristica con l’autoritarismo, la paura del jihadismo con la privazione delle libertà civili.
Capire, certo. E tante domande in molti avrebbero dovuto porsele ben prima che Giulio morisse. Possa almeno la scomparsa di questo ragazzo, che i suoi amici descrivono come coraggioso, mite e appassionato, servire a farci riflettere seriamente e attentamente sull’Egitto di oggi. Sono sicuro che questo, Giulio, lo avrebbe voluto.