L’Arabia saudita ricopre il singolare e ambiguo ruolo di essere un amico storico dell’Occidente e al tempo stesso, come ci stiamo rendendo conto troppo tardi, il vaso di Pandora di molti dei nostri problemi. Proprio ad un blogger saudita, Raif Badawi, Il Parlamento europeo ha consegnato il 16 dicembre il Premio Sacharov per la libertà di pensiero 2015. Ritenuto colpevole di aver insultato i valori della religione islamica attraverso il suo sito web, Badawi è stato condannato dalle autorità del suo Paese a 1000 frustate e 10 anni in carcere. Poiché rinchiuso in una prigione saudita, il blogger non è potuto essere presente alla cerimonia di premiazione tenuta a Strasburgo, dove invece c’era la moglie Ensaf Haidar.
Per decenni i politici e i media occidentali hanno parlato di quello che accadeva a Riad solo sottovoce, per motivi che non sono difficili a capire. Gli enormi interessi economici rappresentati dal petrolio, infatti, hanno fatto passare in secondo piano le molte ombre della politica ai tempi dello storico re Fahd come in quelli dell’attuale sovrano Salman. Compreso il fatto che in Arabia la monarchia è totalitaria, non lascia spazi alla libertà di espressione e comprime i diritti umani più basilari. Basti pensare che solo pochi giorni fa le donne hanno espresso per la prima volta nella storia del Paese il loro voto alle elezioni municipali, per giunta tra molte difficoltà e restrizioni.
Da questo sonno collettivo sulle violazioni dei diritti praticati da un nostro “alleato” stiamo emergendo lentamente solo ora. Anche a causa – come nota acutamente l’editorialista del Financial Times Gideon Rachman – della maggior indipendenza degli Usa dalle fonti energetiche non rinnovabili del Golfo (ottenute attraverso le sciagurate pratiche di fatturazione del terreno per estrarre shale gas) e della ritrovata sintonia tra Washington e Teheran, l’opinione pubblica e i media occidentali hanno finalmente rotto gli indugi. E la critica contro Riad è venuta in superficie.
Qualcuno, proprio in seguito alla condanna di Raif Badawi, si è spinto a paragonare l’Arabia all’Isis, semplicemente osservando le straordinarie similitudini dell’applicazione della sharia (la legge islamica) nel Regno e nel sedicente Califfato. Altri hanno messo nero su bianco l’enorme flusso di attrezzature militari che Usa, Cina e diversi Paesi occidentali (tra cui l’Italia) hanno venduto in passato e continuano a vendere tuttora ai sauditi, a loro volta complici dell’Isis attraverso finanziamento e fiancheggiamento ideologico. Ha suscitato ironia la conferenza di pace sulla Siria sponsorizzata dall’Arabia, che ha sortito un singolare risultato: la formazione di una coalizione anti–terrorismo di 34 Stati a maggioranza musulmana, che tuttavia non comprende Iran, Siria e Iraq, e all’atto della cui composizione non si fai mai menzione dell’Isis. Per questo è’ stato a dir poco liberatoria la voce del New York Times quando ha assestato una pesante stoccata all’Arabia, definendola “un’Isis che ce l’ha (già) fatta”.
Teniamo presente una cosa. Badawi è la vittima più nota, ma non certo l’unica, del regime saudita. Il lungo elenco comprende infatti altri nomi in favore dei quali la società civile in diversi Paesi occidentali si è attivata con campagne e petizioni online. C’è il caso del poeta di origine palestinese Ashraf Fayadh, accusato di promuovere l’ateismo con i suoi versi e destinato alla pena capitale. C’è quello del giovanissimo Ali al-Nimr, condannato addirittura alla crocifissione, arrestato quando era ancora minorenne per aver, fra le altre cose, “incitato alla rivoluzione” contro la monarchia. Tutti questi fatti sono particolarmente scioccanti perché i reati imputati a queste persone non sono altro che reati di opinione – ciò che nel mondo occidentale e secondo i suoi più profondi valori dovrebbe essere piuttosto una colpa giudicare reato. Amnesty International ha lanciato l’allarme circa l’imminente esecuzione, decisa nel giro di un solo giorno, di almeno 50 prigionieri, alcuni dei quali appartenenti alla minoranza sciita.
Non posso che chiedermi, dunque: come possiamo continuare a tollerare tutto questo? Che l’Unione europea assegni a Badawi il suo premio più prestigioso è sicuramente importante. Ma davvero basta? Credo proprio di no. A meno di non voler annegare nelle proprie contraddizioni, la posizione dell’Unione deve essere forte e univoca – come invece oggi non è. I diritti umani vengono prima degli affari, del petrolio e del commercio di armi. Mi spiace dirlo, ma da questo obiettivo mi sembra che siamo ancora davvero molto lontani.