L’hanno chiamato fenomeno dei cervelli in fuga, nuova emigrazione, perfino lost generation (“generazione perduta”). Tanti termini diversi, più o meno originali, per definire l’esodo delle migliaia ragazzi italiani che ormai da anni hanno lasciato (e lasciano) il nostro Paese. E che non vogliono o non possono più tornare. Definizioni che raccontano le involontarie peripezie di sopravvivenza messe in atto da parte di tanti miei coetanei (chi vi scrive è attualmente 30enne) che ho incontrato – come molti di voi avranno fatto, sempre se non fate già parte anche voi del “club” – nella nostra maiuscola Europa. Io stesso avrei potuto essere uno di loro. E anche se non lo sono – semplicemente perché la volontà di non arrendermi mi ha spinto a dedicare questi anni a un’occasione irripetibile di cambiamento politico – non posso non sentirmi parte, in ogni caso, di questo inarrestabile flusso unidirezionale di giovani energie. Che l’Italia nutre, forma… e poi rifiuta. Costringendole a un viaggio Italia-resto del mondo. Biglietto di sola andata.
Questa volta, ancor più del solito, vi parlo in prima persona. E con il cuore in mano. Lo faccio a partire dalla mia esperienza di trentenne onorato di poter mettere tutte le sue energie al servizio dei cittadini e di una missione in cui credo. “Cambiare il Paese per non (dover) cambiare Paese” è una frase che ho ripetuto così tante volte a me stesso. Alla fine è divenuta il mio motto. E ancora oggi, specie nei momenti più bui, quando la concitazione della lotta politica o l’amarezza per un risultato vanificato dalla tirannia del sistema partitocratico sono più forti, torna a riaffiorare nella mia mente. Insistente, tenace. Per spronarmi a lavorare sodo in favore di tutti quelli che, invece, l’Italia sono stati costretti a lasciarla.
Vorrei raccontare un episodio forse piccolo, ma che mi ha molto colpito. Alcuni mesi fa, a margine di una delle nostre agorà ho incontrato Marco, un ragazzo romano di 24 anni, da poco laureato in Fisica con il massimo dei voti. Mi ha fatto qualche domanda sul MoVimento, era la prima volta che si avvicinava a un nostro evento. Quando gli ho chiesto come intendesse muoversi per cercare lavoro “in Italia o all’estero”, la sua espressione si è repentinamente contratta in un sorriso di sottile condiscendenza. “L’Italia… magari. A essere sincero, non penso proprio”, ha detto sovrapponendo la sua voce alla mia, prima ancora che potessi finire una domanda evidentemente retorica. A sei mesi di distanza da quell’incontro, ho appreso casualmente pochi giorni fa che Marco ha ottenuto una borsa di studio presso un importante istituto di ricerca in Germania.
Ripensandoci, nonostante il dispiacere per aver visto partire un ragazzo in gamba non riesco proprio a biasimarlo: quanti di noi, al suo posto, avrebbero reagito nello stesso modo? Sospetto una larghissima maggioranza. Il problema, naturalmente, non è che un brillante neolaureato italiano in Fisica vada a perfezionarsi in un altro Paese. Ci mancherebbe. Niente però ci assicura che tra qualche anno, quando avrà completato gli studi dottorali e sarà magari già inserito all’interno di una struttura accademica, Marco avrà voglia di tornare a Roma o comunque in Italia.
Per spiegare questo fenomeno di flusso unilaterale di laureati e giovani ricercatori, trovo illuminante il caso dei fondi assegnati dallo European Research Council (ERC)- struttura dell’Unione europea a sostegno della ricerca in ambito accademico. Come informa un articolo del quotidiano La Repubblica, ERC seleziona e sostiene economicamente giovani ricercatori di talento in modo che possano muoversi in autonomia, decidendo dove andare a svolgere il proprio lavoro scientifico e accademico. Tra 2014 e 2020 saranno erogati da ERC complessivamente 13 miliardi di euro, di cui 92 milioni andranno ai nostri ragazzi. “Ogni anno succede la stessa cosa”, spiega La Repubblica. “I ricercatori italiani se la cavano bene (quest’anno siamo terzi a pari merito). Ma molti di loro con quei soldi scelgono di fare ricerca all’estero: quest’anno sono 17 su 30 (il 56,7%), due anni fa erano 26 su 46 (stessa percentuale, 56,5%, sebbene non si possa non notare che, in termini assoluti, c’è una certa flessione)”. E finisco per essere così bravi ad adattarsi in giro per il mondo da non voler più tornare indietro.
Torniamo alle statistiche. Il rapporto annuale Istat 2015 indica come 3mila dottori di ricerca (pari al 12,9 per cento) che hanno conseguito nel 2008 e nel 2010 il titolo in Italia vivono stabilmente fuori dai confini nazionali – una percentuale in crescita rispetto agli anni precedenti. Alcune stime valutano in 12.000 il numero totale dei ricercatori attualmente all’estero con fondi di ricerca (dei singoli Stati o internazionali come nel caso ERC) e vedono nel futuro prossimo la possibilità che la situazione peggiori: i ricercatori “in esilio” potrebbero arrivare a 30.000 nel 2020. Anche il danno economico per il nostro Paese è evidente: ognuno di questi giovani accademici è stato formato al costo medio di 150.000 euro considerando il loro percorso scolastico e universitario in Italia. Moltiplicando la spesa, il risultato finale è nell’ordine di miliardi di euro. Che arricchiscono gratuitamente altri paesi. E per noi vanno in fumo.
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi non appare troppo preoccupato. Con il solito sprezzo “anti-gufi”, si dice infastidito dalla “retorica trita e ritrita” dei cosiddetti cervelli in fuga. Non diversamente, la ministra dell’Università Stefania Giannini a febbraio aveva espresso soddisfazione per i 30 ricercatori premiati dai fondi europei, dimenticando tuttavia che oltre la metà di loro nelle Università italiana non vogliono tornare affatto. Una di loro, la 42enne Roberta D’Alessandro – trasferitasi a Leiden, nei Paesi Bassi, per lavorare – le rispondeva su Facebook: “Ministra, la prego di non vantarsi dei miei risultati. La mia ERC e quella del collega Francesco Berto sono olandesi, non italiane. L’Italia non ci ha voluto, preferendoci, nei vari concorsi, persone che nella lista degli assegnatari dei fondi ERC non compaiono, né compariranno mai”. Perché in Italia, concludeva Roberta “non esiste meritocrazia”.
Sia ben chiaro: il fenomeno degli accademici in fuga è una mera scheggia di un quadro più ampio. Se ne vanno giovani professionisti o ragazzi non universitari alla sacrosanta ricerca di opportunità di lavoro. Il rapporto Migrantes 2015 – l’ultimo disponibile al momento – documenta come negli ultimi 10 anni il flusso di italiani verso l’estero è aumentato del 49,3%. Si tratta, afferma Eurostat, del dato peggiore nell’Unione europea dopo quello della Grecia.
In questo contesto il nostro il Paese si impoverisce, si spopola delle energie nuove che dovrebbero entrare in circolo, come fisiologico, ad ogni cambio di generazione. Un Paese che rischia sempre di più di avvolgersi su sé stesso invece che proiettarsi verso le sfide del futuro.
Che fare? In primis è imprescindibile aumentare la spesa pubblica per l’università e la ricerca, portandola al livello dei nostri “competitors” europei e non: il confronto tra Italia (0,7 del pil) e Germania (2%) è impietoso. Bisogna lavorare sui meccanismi di selezione, sui bandi e sui concorsi, lottando duramente contro il cosiddetto baronato e il clientelismo universitario e inserendo robuste garanzie meritocratiche. Vanno poi create le giuste sinergie con il privato (incentivi, bonus fiscali per le assunzioni e la creazione di start-up, ecc.) per creare le condizioni affinché i nostri brevetti e le nostre scoperte possano essere sfruttate commercialmente qui in Italia, generando occupazione.
Renzi ha torto: il problema della fuga dei cervelli c’è eccome, tanto è vero che per la prima volta dall’Unità d’Italia il numero di iscrizioni all’Università è in calo. Non si nasconde con un tweet dei suoi. E non può non essere ai primi punti dell’agenda di Governo. Se il nostro Paese diventa un deserto accademico tutti ne pagheremo le conseguenze: gradualmente e conseguentemente anche l’Università pubblica e la scuola dell’obbligo scenderanno di livello. E forse un giorno i nostri figli saranno obbligati a scegliere l’istruzione privata per ottenere alta qualità formativa (ma forse questo, a certe forze politiche, neanche dispiace… anzi). E poi in età universitaria troveranno plausibilmente solo un’offerta d’élite, magari presso i nostri vicini in Francia, Svizzera o Gran Bretagna. Il tempo scorre rapido e inesorabile: abbiamo accumulato un ritardo e un divario crescente. Non so voi, ma io non voglio proprio accettare di essere parte di una generazione che si rassegnerà a cambiare paese per non aver saputo cambiare il nostro, di Paese.