sabato 23 settembre 2023

Accordo UE-Turchia sulle migrazioni: un patto col diavolo?

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Apr 2016

Con il Consiglio europeo tenutosi a Bruxelles il 17 e il 18 marzo e ampiamente anticipato dall’incontro del 7 marzo, Unione europea e Turchia hanno concluso un accordo sulla gestione dell’emergenza migranti. Al netto di numerosi dettagli, il problema più spinoso si condensa in una sola domanda, in realtà piuttosto semplice: con quale Paese sta venendo a patti l’Europa? È davvero necessario fare concessioni al suo Presidente, il sempre più autocratico e autoritario Recep Tayyip Erdogan? Per dirla in modo ancora più netto e inequivocabile: come è possibile che il gigante Ue – espressione di Stati che rappresentano alcune tra le maggiori economie mondiali – venga messo alle strette e perfino ricattato dalla sola Turchia?

Andiamo con ordine. In linea di massima, il patto prevede che per ogni rifugiato entrato irregolarmente in Grecia e ripreso in consegna da Ankara, i Paesi dell’Unione ne prendano e ricollochino altrettanti dalla stessa Turchia, fino a un massimo al momento stimato di 72.000 persone. A fronte di questo scambio, la Turchia chiede e ottiene altri 3 miliardi di euro – in aggiunta ai 3 già negoziati nel precedente Consiglio europeo di febbraio 2016 – per la gestione dell’emergenza profughi, la fine dei visti Schengen per i propri cittadini e un’accelerazione della procedura di adesione all’Unione europea. Ma neppure aveva fatto in tempo a vedere la luce la versione preliminare dell’accordo che subito sono piovute pesantissime critiche. L’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati ha espresso forti dubbi sull’ipotesi di rimpatrio di persone richiedenti asilo, che rischia di violare le convezioni internazionali, mentre due importanti organizzazione umanitarie quali Human Rights Watch e Amnesty International hanno manifestato preoccupazione per il mancato rispetto dei diritti umani in territorio turco. Timori raccolti dal parlamento europeo e rilanciate da diversi Stati, sia per ragioni umanitarie (come nel caso di Spagna e Francia) che di collocazione piuttosto geopolitica (come nel caso di Ungheria, Bulgaria e Cipro). Rispetto alle quali, lo stesso presidente del Consiglio europeo Donald Tusk si era trovato a dover assumere un atteggiamento cauto e attendista.

Durante i tre o quattro mesi nel corso dei quali Bruxelles ha cercato di venire a patti con la Turchia, il presidente Erdogan ha ulteriormente accentuato alcuni tratti autoritari che avrebbero dovuto suggerire più coerenza e cautela ai partner europei. Ha continuato a irrigidire il controllo sulla libera stampa, come ha dimostrato il recente caso del quotidiano di opposizione Zaman, commissariato dal governo con un blitz della polizia all’interno della reazione del giornale. Questo gravissimo episodio arriva solo qualche mese dopo rispetto all’altrettanto gravissimo caso dei due giornalisti arrestati e condannati – anche se poi scarcerati dietro istanza della Corte costituzionale – per aver pubblicato sul quotidiano Cumhuriyet un’inchiesta sul traffico di armi verso la Siria e le connivenze con l’Isis.

I terribili attentati che da mesi insanguinano Ankara e Istanbul, l’ultimo dei quali avvenuto il 14 marzo nella capitale, sono però la dimostrazione di quali fatti siano realmente in grado di catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica turca. La Turchia è un Paese che combatte su due fronti diversi, per quanto connessi tra loro, uno interno e uno esterno. Da un lato quello domestico contro i curdi, vittime di abusi e azioni militari da parte del governo in quanto regolarmente ritenuti responsabili delle azioni terroristiche. Dall’altro quello della guerra per procura in Siria, che vede Ankara protagonista del complesso gioco anti-sciita in cui è alleata dei Paesi del Golfo Persico e contrapposta all’asse Teheran-Mosca-Damasco-Hezbollah e, di nuovo, impegnata con tutte le sue forze per impedire la nascita di un Kurdistan siriano – sia pur nella ipotesi più blanda di una larga autonomia all’interno di una Siria federale avanzata nei colloqui di pace di Ginevra.

Ankara, in sostanza, va dritta per la sua strada. Il problema è di chi deve venire a patti con la forza, o quantomeno la determinazione, che Erdogan in questo momento esprime nel provare ad ottenere risultati politici a proprio vantaggio. In altre parole, il nodo è tutto nelle nostre mani: quello degli europei.

Diciamolo quindi con chiarezza: la verità è che il “sultano” Erdogan sta ricattando l’Europa. Le spinte che provengono da Ankara sono tali da creare un effetto-domino sui governi di quei Paesi europei che si sono più fatti carico del flusso migratorio, come nel caso della Cancelliera Merkel che ha, alternativamente, aperto e chiuso le frontiere per poi infine pagare un alto costo in termini di voti alle recenti elezioni regionali. Quest’Europa sotto ricatto reagisce pavidamente: elargisce soldi senza porre condizioni su come dovrebbero essere spesi – ovvero, auspicabilmente per l’assistenza e il soccorso dei profughi – chiude sistematicamente gli occhi sulle vessazioni contro il popolo curdo e sul sostegno militare di Ankara alle milizie turcomanne che, ironicamente, in Siria combattono i curdi alleati proprio dell’Europa nella guerra contro l’Isis.

Su quello che si potrebbe definire il “lato oscuro” del patto tra Europa e Turchia riflette lo scrittore Kenan Malik, che sembra analizzare la volontà politica europea quasi con in chiave psicanalitica. Non da ora, scrive Malik, l’Unione europea risolve i problemi i problemi relegandoli oltre i propri confini. “Così ha fatto notoriamente già quando ha dato al colonnello Gheddafi una grande quantità di denaro a patto che gestisse lui le politiche migratorie del vecchio continente”. Ora ci si affida ad Ankara al grido di: “spingi i problemi fuori (dall’Europa). Così puoi fingere che non esistano”.

Purtroppo l’outsourcing delle responsabilità europee al sultano Erdogan non sembra un’idea particolarmente brillante. “Soltanto la consueta faciloneria degli europei del Nord” nota il giornalista Alberto Negri in un denso passaggio che merita di essere riportato per esteso, “può indurre a pensare che la Turchia sia la soluzione e non il problema. Ankara fa parte del problema mediorientale e dopo l’intervento della Russia a fianco di Assad è un Paese sul piede di guerra, ipersensibile a quanto accade alle frontiere, avviluppata dall’incubo che possa costituirsi uno Stato o una regione autonoma curda. Ma questo non assolve il presidente Tayyip Erdogan e la sua politica, incoraggiata per altro a lungo proprio dalla signora Hillary Clinton, ex segretario di Stato e ora in campagna elettorale, e dagli altri Stati europei come la Francia. La Turchia sta pagando i calcoli sbagliati della sua leadership: aveva puntato sulla caduta di Bashar al-Assad a Damasco e con l’assenso anche delle potenze occidentali ha favorito il passaggio di migliaia di jihadisti. Non solo: ‘l’autostrada della jihad’ si è chiusa con l’ingresso in campo di Mosca il 30 settembre scorso, ma adesso i jihadisti e i gruppi di opposizione hanno perso la battaglia di Aleppo e ripercorrono in senso contrario la rotta della guerriglia mescolandosi ai profughi che fuggono in Turchia. È per questo che la Turchia e l’Arabia Saudita si stanno mobilitando: rischiano un’altra sconfitta per il fronte sunnita anti-Assad e un ulteriore rafforzamento dell’influenza iraniana nella regione”.

Sempre pronto a censurare le ingerenze di Mosca o le minime violazioni di accordi internazionali da parte di Teheran, il gigante Europa fa invece la voce stridula nei confronti della decisa e, purtroppo per noi europei, ancora troppo decisiva Turchia. Erdogan si sta avventurando su posizioni sempre più azzardate e, con queste scelte, avvicina il suo paese sempre più verso il baratro: a seguito della crescita economica impetuosa dal 2001 al 2011 in cui, nonostante il carico della crisi dal 2008, il PIL della Turchia è aumentato in media del 5,3% all’anno in termini reali, il Presidente turco aveva accarezzato e coltivato sempre più intensamente l’ambizione neo-ottomana di tornare ad essere la potenza dominante dell’intero Medio Oriente. Ha sostenuto fortemente la Fratellanza musulmana, senza prevedere l’ascesa di al-Sisi in Egitto che ha sparigliato le sue carte. E si è imbarcato nell’avventura siriana sperando di ricavarne un governo sunnita filo-turco e, forse, anche vantaggi territoriali (Aleppo?) ritenendo che tanto la Russia, invischiata nello scottante dossier ucraino, quanto l’Iran, ancora intrappolato nelle sanzioni occidentali, sarebbero stati incapaci di intervenire in modo abbastanza energico da impedire il crollo di Assad. L’arrivo in forze dei russi insieme alle forze iraniane e libanesi di Hezbollah, a seguito degli accordi sul nucleare iraniano, lo hanno clamorosamente smentito. Ha fallito la sua scommessa, e neanche con l’abbattimento del caccia russo Su-24 è riuscito a spingere gli alleati della NATO sulla strada di un’escalation, di uno scontro più diretto (e completamente suicida) contro Mosca, che in realtà nessuno, a parte lui, voleva. E il suo più temuto spauracchio, una Rojava (Kurdistan siriano) largamente autonoma, se non addirittura indipendente, è progressivamente (nonché giustamente, visto il diritto di autodeterminazione dei popoli e l’enorme contributo contro Daesh) più vicino.

Torniamo alla nostra prima domanda: con chi ci stiamo accordando, quindi? Con un alleato instabile e pericolosamente aggressivo per l’intera area, sempre più lontano dai valori e dalla dimensione europea. Con un Governo che più che parte della soluzione sembra essere parte del problema. Affermare che il patto con Erdogan ci serve per arginare il flusso migratorio è ingiustificabile sul piano etico, ma anche miope su quello politico, visto che l’agenda regionale turca appare totalmente in contrasto con l’interesse dei cittadini europei alla sicurezza e alla stabilità. Come accade a Faust che vende la sua anima, qualcuno prima o poi verrà a chiedere all’Europa il conto. Che sia il diavolo o Erdogan, non farà molta differenza. Ecco perché piuttosto che mettere l’ennesimo cerotto, sarebbe meglio curare veramente le cause della ferita.